Aulós. La migliore traduzione del termine greco aulós (pl. auloi, avlí nella pronuncia moderna) potrebbe essere « canna ». Oboe in grecia
Oboe in Grecia… ossia « aerofono di canna », e la stessa traduzione potrebbe valere pure per la corrispettiva denominazione strumentale latina: tibia. Non diversamente del resto abbiamo già tradotto l’accadico hàlilu, l’egizio ma-t e l’ebraico halil. La consueta traduzione di aulós con « flauto » è sbagliata e fuorviante. L’autore non può dimenticare, al proposito, il suo vecchio insegnante di greco, il quale pure rimaneva vittima di questa falsa interpretazione. Ogni volta che nei testi da noi letti in classe ricorreva il termine aulós, egli non mancava l’occasione per magnificarci la squisita sensibilità dei suoi amatissimi eroi, così superiore agli orecchi infarciti di clangori wagneriani degli studenti d’oggi: un flauto, il più delicato degli strumenti era sufficiente a rapirli in estasi e a infocarli del desiderio di combattere). Gli aerofoni di canna raffigurati sui vasi greci e romani non sono flauti, ma oboi doppi di fattura orientale, il cui suono doveva essere penetrante, insistente ed eccitante quanto quello d’uno strumento simile e d’uso militare: la cornamusa dei reggimenti scozzesi. E per sonare quegli aulos tanto fiato abbisognava che quasi tutte le raffigurazioni contemporanee di auleti, pitture vascolari e rilievi, mostrano l’esecutore che indossa una specie di museruola: una fascia di cuoio che passa sopra la bocca ed è fermata da una cinghietta sempre di cuoio dietro alla testa. All’altezza della bocca la fascia aveva due fori larghi abbastanza da potervi introdurre le due canne dello strumento. Quest’arnese aveva lo scopo di mantenere una pressione regolare alle gote del sonatore che assolvevano alla funzione di mantice, del sacco d’una cornamusa, non diversamente da quel che avviene per i soffiatori di vetro. I Greci chiamavano quest’apparecchio phorbeià e i Romani capistrum. È un capriccio della storia che questo accessorio esecutivo si sia conservato solo in una remota regione: a Giava e nella vicina isola di Madoera, dove l’antico oboe doppio fu usato e raffigurato fin dal primo millennio d.C. Nondimeno esistono molte rappresentazioni di sonatori di questo strumento che non indossano phorbeià, e dei poeti celebrano a volte la « dolce » voce degli auloí (glykys), proprio come gli ebrei chiamavano i loro aerofoni ad ancia strumenti hàla, e come più tardi in Europa alcuni oboi porteranno un nome derivato da dulcis. Non ci è dato sapere se una tale differenza di timbro fosse imputabile alla misura dell’ancia, alla forma dello strumento o alla phorbeià.Sappiamo però che Greci e Romani possedevano numerose specie di oboi doppi. Il più importante era l’oboe doppio frigio che aveva le due canne di lunghezza differente, con la più lunga ricurva verso il fondo e terminante con un largo padiglione simile a quello d’una tromba; i fori per le dita eran posti ad altezza diversa in ognuna delle due canne, le quali avevano, stando a Profirio, piccolo diametro. Una denominazione greca per quest’oboe doppio era auloí élymoi. L’oboe doppio lidio, invece, che venne indicato dai Romani con la denominazione tibiae serranae (= fenicie), aveva canne di eguale lunghezza e coi fori per le dita in identica posizione. Le canne dell’oboe doppio eran ricavate in diverse misure e in diversi tagli d’altezza sonora. I Greci distinguevano: auloí parthénioi (pàrthenos = fanciulla) come oboi doppi soprani; aulol paidikoí (país = fanciullo) come oboi doppi contralti; auloí téleioi (téleios = perfetto) come oboi doppi tenori; auloí hypertéleioi come bassi. Oltre a queste denominazioni ve n’erano molte altre che non sono ancora state interpretate. A testimonianza degli antichi scrittori gli antichi oboi doppi i avevano solo quattro, o anche tre, fori per le dita. Il diametro interno delle canne era piccolo abbastanza da non permettere la produzione dei suoni fondamentali e perciò il primo armonico che il sonatore poteva emettere dal suo strumento faceva risultare un salto di quinta e non d’ottava come di norma ci s’aspetterebbe. Anche con più di quattro fori le canne dell’oboe doppio erano limitate alla produzione di melodie nell’ambito d’uno dei tre tipi o toni su cui la musica greca era basata: tetracordi discendenti diatonicamente congiunti, con un semitono posto rispettivamente alla fine (modo dorico), al centro (modo frigio) e all’inizio (modo lidio).